Nota Introduttiva Di Marina Coccia E Luisa Morozzi (Dal Volume Speciale: Arnolfo Di Cambio: Il Monumento Del Cardinale Guillaume De Bray Dopo Il Restauro)

Estratto da volume Arnolfo Di Cambio. Il monumento del Cardinal Guillaume De Bray dopo il restauro (2009)

Con questo volume si pubblicano gli Atti del convegno Internazionale sul “Monumento del cardinale Guillaume De Braye di Arnolfo di Cambio dopo il restauro”, promosso dall’allora Direttore Generale Mario Serio, che si tenne a Roma e Orvieto tra il 9 e l’11dicembre 2004.
Il convegno era dedicato ad Angiola Maria Romanini che aveva seguito e supportato da vicino il lungo lavoro di restauro. Quest’ultimo aveva preso avvio con studi e ricerche preliminari già dal 1982, in quanto lo stato di degrado e mutilazione in cui versava il monumento impediva di coglierne appieno l’ importanza artistica che rivestiva nell’evoluzione dello stile dell’artista e soprattutto non permetteva di immaginare quale potesse essere stato il suo aspetto originario.
Il restauro vero e proprio è stato condotto dal 1990 al 2004 con finanziamenti statali e si è avvalso di una équipe multidisciplinare, estesa anche alla collaborazione di professori universitari, architetti, studiosi italiani e stranieri e di un collaudato ed esperto gruppo di restauratori; il coordinamento generale è stato dell’ing. Luciano Marchetti, allora Direttore Regionale dell’Umbria, mentre la dott.ssa Giusi Testa è stato il funzionario storico dell’arte responsabile, per la relativa soprintendenza, della direzione dei lavori.
Come la gran parte delle opere del medioevo, soprattutto funerarie, la tomba del cardinale De Bray non era più integra; molta parte dei suoi componenti è andata perduta nel tempo, come si può con certezza affermare per il piano superiore, compreso l’originario baldacchino; ancora oggi elementi della tomba, che non hanno trovato una plausibile collocazione nella ricomposizione seguita al restauro del 2004, ad esempio i due turibolanti, sono conservati nel locale Museo dell’Opera del Duomo.
Il monumento si presentava quindi fortemente degradato e risultava compromessa la percezione della forma originaria: ridotto in profondità e in larghezza, incassato nel muro invece che aggettante; il trono e la Vergine rimontati in modo erroneo. Inoltre le statue dei santi, non più nella collocazione originaria (incassate in nicchie posticce), falsavano completamente tutti i rapporti di “dialogo” simbolico e di relazione tra le statue della parte alta del monumento sepolcrale.
Ciò che altera ancora oggi la percezione delle importanti novità che Arnolfo raggiunse con quest’opera, è che essa non si trova più nella posizione originaria (presumibilmente nella terza campata della navata laterale destra della chiesa di San Domenico), per la quale erano stati previsti precisi punti di osservazione, funzionali a poter più giustamente apprezzare le nuove e complesse soluzioni prospettiche e spaziali della progettazione arnolfiana. Infatti, anteriormente al 1680, la tomba fu smontata e ricollocata, verosimilmente con gravi perdite di molte delle sue parti, nel transetto, cambiando così radicalmente l’orientamento del monumento stesso e modificando irreparabilmente, come detto, il punto di vista privilegiato che era stato previsto dall’artista. Forse in quel tempo la tomba fu anche “incassata” per metà nel muro, operazione che ridusse a una sorta di bassorilievo un monumento concepito invece con un forte aggetto architettonico. La larghezza e la profondità dell’insieme risultarono fortemente diminuite.
Molti, quindi, e di grave peso per la corretta interpretazione del monumento, gli errori fatti in passato nella ricomposizione dell’opera stessa, errori che avevano completamente annullato una delle più originali innovazioni di Arnolfo, e cioè la straordinaria impostazione prospettica dell’insieme, ora, dopo il restauro, di nuovo apprezzabile, come ad esempio nello spazio che contiene il sarcofago, nel quale le colonnine mosaicate si scalano sulle paraste e sulle semiparaste su cui si impostano gli archetti delle nicchie, creando l’illusione di una piccola “galleria” tra il fondo e le colonnine, spazio in realtà inesistente ma suggerito dallo scultore con grande perizia prospettica.
Le fondamentali notizie tecniche sui restauri sono ampiamente riportate negli articoli di Paolo Martellotti, Giovanna Martellotti, e Carla Bertorello, mentre altri restauratori trattano degli aspetti inerenti ai materiali usati. I contributi di Tabasso e Lazzarini, autori che non avevano partecipato alle giornate del convegno, trovano qui, in ragione delle analisi e delle indagini svolte dal punto di vista dei materiali costitutivi del monumento, giusta collocazione. È infine da sottolineare che tutti gli interventi effettuati sono reversibili.
Segnaliamo inoltre che il restauro ha messo in luce tracce di coloritura e doratura, un dato che avvalora l’ipotesi che il monumento fosse in parte dipinto, come dimostra anche il confronto con la statua di Carlo I d’Angiò, conservata in Campidoglio, della quale il restauro effettuato nel 2005 ha rilevato una cromia piuttosto vivace, secondo l’uso corrente del tempo.
Il valore di questo intervento consiste dunque nel fatto che non si è limitato ad un’opera di “conservazione”, ma, andando oltre, si è proposta una ricostruzione filologica  — con il numero di partiture e campate originali — capace di dare una nuova “leggibilità” al monumento.
Ecco allora che questo restauro riscopre e suggerisce gli elementi principali con i quali Arnolfo — aggiornato sulle ultime novità stilistiche che venivano dalla Francia e, sul versante scientifico, interessato ai meccanismi della “percezione visiva” introdotti dagli studi di ottica, di cui Viterbo e Orvieto erano stati in quei tempi i centri di maggiore diffusione — costruisce nella tomba De Bray una originale profondità prospettica e una nuova spazialità che fanno di questo monumento innanzitutto un capolavoro di “architettura” figurativa.
Anche l’architettura della chiesa era partecipe di queste innovazioni prospettiche. Come messo in rilievo dall’articolo di Raffaele Davanzo, l’edificio era progettato in modo che lo spazio interno si dilatasse progressivamente attraverso accorgimenti tecnico–prospettici, dando l’illusione di uno spazio molto più ampio. La stessa illusione che si riscontra nella tomba De Bray dove i vari piani sono allusivi di una profondità diversa da quella reale. È così ipotizzabile una progettazione concomitante dell’edificio e del monumento o, per lo meno, il fatto che Arnolfo avesse tenuto presente la particolare spazialità architettonica della chiesa in modo che si amplificasse l’effetto di entrambe.
L’aver restituito il “volume” originario all’opera arnolfiana, con la riacquisita profondità rispetto alla parete e l’originale partitura del fronte — basamento a cinque formelle anziché quattro e galleria del sarcofago con sette campate in luogo di sei — è uno dei meriti di quest’ultimo restauro. Purtroppo l’analisi di tutti i dati accumulati e accuratamente verificati ha permesso la ricostruzione, con verosimile certezza, solo della parte inferiore della tomba sino alla camera del giacente, ora conforme all’originale struttura.
Per la parte superiore, data la totale mancanza di qualsiasi elemento che potesse suggerire un’ipotesi di ricostruzione filologicamente certa, si è scelto solo di proporre lo sviluppo in altezza di tutto il monumento, come illustra Luciano Marchetti nel suo intervento, accennando un possibile gâble (il baldacchino a timpano che racchiudeva il sepolcro) che emerge dal fondo della parete.È forse utile dare qualche notizia anche sui protagonisti e sull’ambiente politico e culturale di quel giro di tempo intorno ad Arnolfo di Cambio.
Del domenicano cardinale De Bray non è nota la data di nascita; originario probabilmente di Bray–sur–Seine (Seine–et–Marne, Francia), professore di Diritto e Teologia a Parigi e, come recita la lapide tombale, “matematico, letterato” e versato nella “filosofia tutta”, fu uno dei firmatari nel 1248, insieme tra gli altri ad Alberto Magno e Odo di Châteauroux, dell’appello contro il Talmud, le cui implicazioni concettuali si ritrovano, secondo alcuni studiosi, anche nella sua tomba. Dopo aver ricoperto varie cariche ecclesiastiche, fu creato cardinale del titolo di San Marco nel 1262 dal papa francese Urbano IV e ricoprì l’ufficio di camerario papale e poi di camerlengo del Sacro Collegio. Morì ad Orvieto nel 1282, durante il soggiorno della curia pontificia in quella città, e fu sepolto in San Domenico.
Viterbo e Orvieto, proprio negli anni immediatamente precedenti l’edificazione della tomba De Bray erano state saltuariamente sedi sia della corte pontificia che di quella angioina (all’incirca tra il 1257 e il 1285) e quindi centri di produzione culturale e scientifica di notevole livello. Va anche notato come molte delle personalità ecclesiastiche coinvolte nel fervore della nuova elaborazione culturale appartenessero all’ordine domenicano.
Nel 1257 Alessandro IV dei Conti di Segni si trovò a dover forzatamente trasferire la sede pontificia a Viterbo a causa delle guerre feudali scatenate dall’ostilità e dai forti contrasti con i nobili e il popolo romano; ben otto papi si susseguirono così nella città di Viterbo fino a quando, sollevatasi anche quest’ultima contro il papato, la cittadinanza costrinse il francese Martino IV a riparare ad Orvieto, eletta sede pontificia nel 1281 e tale rimasta fino al 1285. Grazie al grande concorso di colti cardinali e studiosi soprattutto di scienze, matematica e diritto, Viterbo diventò un centro di diffusione del sapere; in particolare vi si svilupparono gli studi di ottica, che ebbero certamente influenza anche su Arnolfo di Cambio, come si può cogliere anche nella tomba De Bray. Intorno al 1269 vi si era trasferito infatti lo scienziato Witelo, domenicano polacco, che tra il 1270 e il 1278 scrisse la Perspectiva, in 10 libri, la più importante opera medioevale sull’ottica e sui fenomeni della visione, basata sui precedenti trattati arabi. Già nel 1267 lo scienziato e filosofo Ruggero Bacone aveva fatto giungere a Viterbo al papa francese Clemente IV i suoi studi sulla “prospettiva”. Negli stessi anni a Viterbo insieme a Witelo è presente anche John Peckam, che scrive a sua volta un compendio sulla scienza ottica. Persino un papa, Giovanni XXI (1276–77), non abbandonò mai i suoi studi sull’ottica e scrisse proprio a Viterbo il suo trattato De Oculo. Con il trasferimento della corte papale ad Orvieto, è quest’ultima cittadina a diventare centro di diffusione del sapere scientifico e matematico. E certamente per Arnolfo, come si è già detto, era quindi facile essere al corrente degli importanti risultati raggiunti dalle scienze ottiche nell’ambito della “percezione” architettonico–spaziale, vista la sua frequentazione in quel torno di tempo delle corti papale e angioina.
Ma un altro elemento fa di Orvieto un luogo importante ai fini dell’evoluzione stilistica di Arnolfo: nel 1281 oltre al papa, risiede ad Orvieto anche Carlo d’Angiò con tutta la sua corte, al cui servizio l’artista era stato probabilmente già dal 1277 a Roma, dove esegue la statua del re.
È rilevante anche un altro dato a proposito della città di Orvieto di quei tempi: la predominanza di personaggi provenienti dalla Francia quali prelati, studiosi, uomini di scienze e di lettere che facilitavano la ragguardevole diffusione del portato di quella cultura in tutti i campi; la presenza della corte angioina, con Carlo I d’Angiò prima di tutto; il papa francese Martino IV, fedelissimo di Carlo; e infine la presenza di alcuni predecessori di De Bray (francesi i cardinali di maggiore spicco), sepolti prima di lui proprio in San Domenico.
Si viene così a creare un diretto aggancio, anche artistico, con la cultura d’oltralpe, poiché Carlo d’Angiò aveva portato con sé maestranze francesi ed era sempre aggiornato sulle novità artistiche prodotte alla corte di suo fratello Luigi IX, soprattutto nel campo dell’architettura e della scultura, e che avevano avuto il loro apice con la Sainte–Chapelle, intorno al 1248, opera che influenzò con evidenza le realizzazioni di Arnolfo non solo nel modello “architettonico”, ma soprattutto nel rapporto “concettuale”, cioè della stretta interdipendenza tra architettura e decorazione plastica.
La tipologia del monumento sepolcrale De Bray trova, secondo la Romanini, le sue origini in Francia tra il XII e il XIII secolo; lo schema compositivo prevedeva il baldacchino, la statua del giacente, il sarcofago che funge da basamento, ricchi elementi architettonici; questo modello si diffonderà presto anche in Italia. Lo si ritrova infatti in una serie di monumenti funebri, alcuni dei quali messi a confronto in questo volume con il monumento De Bray, come quelli a Roma del cardinale Consalvo Rodriguez († 1299) in Santa Maria Maggiore e del vescovo Guillaume Durand († 1296) in Santa Maria sopra Minerva e quello Annibaldi di Arnolfo di Cambio (1289 ca.) in San Giovanni in Laterano. Questo modello conobbe successivamente uguale diffusione nella Napoli angioina (dove forse Arnolfo era stato al seguito di Carlo) con Tino di Camaino e i suoi allievi, e, attraverso alcuni di loro, trovò realizzazioni anche a Genova, come testimonia ad esempio la tomba del cardinale Luca Fieschi nel Duomo, iniziata forse a partire dal 1338 (cfr. il contributo di Clario di Fabio in questo volume).
Proprio Arnolfo di Cambio fu infatti tra i primi artisti a diffondere in Italia questa nuova tipologia di monumento funerario.Per quanto riguarda la chiesa di San Domenico, le fonti più antiche riportano la notizia che i Domenicani fondarono in Orvieto una chiesa e un convento tra il 1232 e il 1234, successivamente riedificati in forme più grandi. Nel 1264 il francese papa Urbano IV consacrò il nuovo edificio a tre navate e dalle forme per allora innovative, in quanto introducevano nuove soluzioni prospettiche e spaziali.
Nella chiesa, prima di De Bray furono sepolti i cardinali Ugo di San Caro († 1263), Maestro Generale dell’ordine domenicano, Annibaldo Annibaldi della Molara († 1272) e Odo di Châteauroux († 1273), teologo e filosofo domenicano, che aveva consacrato le reliquie nella Sainte–Chapelle alla presenza di Luigi IX. Sfortunatamente nulla rimane di queste sepolture, in quanto la chiesa ha subito nel corso dei secoli molte trasformazioni, ma soprattutto drastiche demolizioni, tanto che oggi è in realtà ridotta al solo transetto e all’abside. Tutte queste vicende, oltre ad aver fatto scomparire importanti opere d’arte, hanno provocato, come vedremo, anche la parziale perdita e la totale alterazione della tomba De Bray.
Nel 1680 vi fu una prima radicale trasformazione della chiesa di San Domenico, rifatta in forme barocche con la demolizione di buona parte delle navate anteriori. In questa veste arriva sostanzialmente agli anni trenta del Novecento, periodo in cui gli spazi del convento e della chiesa vennero utilizzati in parte per attività concernenti il particolare periodo storico, ospitando la Casa del Balilla e l’Accademia Femminile di Educazione fisica; fu proprio per dare maggiore spazio a quest’ultimo ente che tra il gennaio e l’ottobre 1934 si demolì totalmente quanto restava della navata e della facciata della chiesa nella sistemazione seicentesca, lasciando in piedi il solo transetto e la tribuna a pianta quadrata; questo moncone fu trasformato nell’attuale chiesa. La nuova degradata situazione spaziale ha accentuato ancora di più l’alterata posizione della sepoltura De Bray.
La perdita della facies originaria del monumento è in qualche modo purtroppo irrimediabile, data la pressoché totale assenza di notizie storiche tali da poter supportare un’ipotetica ricostruzione della tomba così come era in origine.
La storia del monumento è infatti pressoché sconosciuta, vista anche l’assoluta mancanza di fonti o documenti che lo riguardino, sia per la committenza, che per le vicissitudini dei secoli poi trascorsi; bisogna arrivare infatti al secolo XVIII per avere qualche prima notizia indiretta sull’opera.
La menzione più interessante ci viene da una Relazione su alcune vicende della chiesa, datata 1752 dove si afferma che la tomba si trovava allora «nel transetto destro». Sono poi particolarmente importanti alcuni poco conosciuti disegni della tomba di J. A. Ramboux (citati qui da A. M. D’Achille), realizzati tra il 1820 e il 1840, che la mostrano nel suo aspetto ottocentesco; uno dei disegni illustra anche come, con parti frammentarie della tomba era stato ad esempio costruito in epoca imprecisata un “altarolo” collocato in una non definita parte della chiesa.
Durante la seconda guerra mondiale il monumento fu smontato e ricoverato nel museo diocesano. Il rimontaggio avvenne nel 1951 ad opera di Renato Bonelli (nella stessa posizione in cui è descritto nella Relazione del 1752); fu preceduto da un cospicuo numero di “studi” per la sua ricomposizione a partire da quelli del Paniconi nel 1906, che tra l’altro già prevedeva l’introduzione di un ulteriore riquadro nel basamento (per l’analisi dei dati storici e delle proposte di ricostruzione cfr. ancora D’Achille). Allora come oggi però non tutti i pezzi erratici — tranne diciassette elementi — hanno potuto trovare un loro posto filologicamente accertabile e così anche in quest’ultimo restauro sono rimaste fuori dalla ricostruzione le statue dei turibolanti, che continuano ad essere conservate, con altri frammenti, nel locale Museo dell’Opera del Duomo.Come già detto, il convegno del 2004 fu dedicato ad Angiola Maria Romanini. È in omaggio alla sua figura di studiosa, in specie proprio di Arnolfo di Cambio, che pubblichiamo in apertura di questo volume l’ultimo suo contributo sull’artista.
Il volume è accompagnato da una sequenza di tavole fuori testo della Tomba De Bray, che oltre a fornire un supporto al corredo illustrativo degli articoli, costituiscono una “lettura compiuta” ai fini della comprensione del monumento dopo il restauro.
Analogamente a quanto accade per gli interventi di restauro che comportano delicati e complessi problemi di riassemblaggio e rimontaggio, anche in questo caso non tutte le scelte adottate possono trovare d’accordo gli studiosi (e anche questi Atti accolgono pareri non concordi). Quello che è importante è la quantità di dati che il restauro e le ricerche ad esso connesse hanno fornito: questi offono una imprescindibile base per gli studi futuri (si pensi ad esempio alla comprovata difformità dei paramenti musivi con gli stemmi angioini e a tutto quello che ciò può comportare in termini di interpretazione storica del monumento), di cui tutta la trattatistica sulla scultura funeraria del Due e del Trecento dovrà tenere conto.
Da ciò si deduce l’importanza di rendere accessibili, attraverso la pubblicazione, questi Atti sul restauro del monumento De Bray, anche a diversi anni di distanza dalla conclusione dell’intervento.

Ultimo aggiornamento

6 Marzo 2024, 10:36